15 dicembre 2009

Non dimentichiamo lo sgombero dei Rom di via Rubattino a Milano


I temi dei compagni di classe: “Dovrebbero aiutarli a restare”

di Zita Dazzi da www.repubblica.it

«Roberta abitava in una baracca in un campo insieme ad altri rom e alla sua famiglia. Era sempre presente in classe e io ero felicissima. Ma oggi non è venuta e io ho pensato: “Sarà malata?”». Finito il tema, le maestre dell´elementare di via Pini hanno spiegato alla bambina milanese che Roberta non andrà più a scuola.
«E se i rom fossero ricchi e il Comune una mattina si trovasse una ruspa che gli distrugge la sua casa? Sicuramente sarebbe deluso, ma poi il Comune che cosa ci guadagna? I rom passano da un campo all’altro e per la città sono nuovi problemi». Hanno fatto un tema, ieri mattina gli alunni delle scuole elementari di via Pini, di via Feltre e di via Cima. Un tema che in qualche caso ha preso la forma di lettera al sindaco Letizia Moratti, in qualche altro ha semplicemente raccontato lo sgombero del campo rom di via Rubattino. Pagine disperate e incredule dei compagni di classe dei piccoli rom che hanno terminato il loro anno scolastico. «In classe piangevano tutti, non solo i bimbi rom che hanno perso tutto e che da ora dormiranno in strada», diceva ieri, mentre le ruspe assaltavano le baracche dentro all’ex Enel, la maestra Barbara Bernini, responsabile del progetto stranieri nei tre plessi della primaria «Elsa Morante». C’era anche lei in via Rubattino, ieri, assieme alla dirigente Maria Cristina Rosi: «Tutto il nostro lavoro, tutta la fatica che abbiamo fatto per accoglierli, per metterli in grado di seguire le lezioni e di ottenere grandi risultati, tutto questo buttato via! È una vergogna, una cosa scandalosa». In classe intanto scrivevano: «Quello che è successo non mi piace per niente – si legge in un tema – . Le autorità dovrebbero mettersi nei panni della mia compagna Isabela, che a me all’inizio non sembrava proprio una rom. Mi sembrava africana. Aveva un grande senso dell’umorismo e era ottimista e positiva».

C’erano diversi genitori della scuola Elsa Morante, accanto agli insegnanti, davanti ai cancelli della fabbrica occupata dai rom. Ma c’erano soprattutto le maestre: Flaviana Robbiati, Silvana Salvi e Ornella Salina, che da mesi si occupano dei bambini iscritti a scuola, 36 quelli in età dell’obbligo, oltre a un altro centinaio più piccoli, in età da nido o da materna. «Nelle nostre scuole si stava costruendo concretamente quella integrazione di cui tanti parlano», racconta Veronica Vignati, una delle maestre che hanno dovuto consolare i bambini in classe, in via Pini, cercando di incanalare tutta la tristezza nel fiume di parole che ha riempito le pagine dei quaderni. «Secondo me dovrebbero aiutare questi rom a trovare un posto nuovo dove stare, invece di rendergli sempre più difficile la vita», conclude una bambina nel suo tema. «Per loro è incomprensibile, inimmaginabile che un loro compagno di scuola resti senza tetto – continua la maestra Veronica – anche se conoscevano la povertà di quelle persone. Sono disperati e noi non sappiamo come consolarli, con quali parole spiegare questo sgombero, che non ha avuto rispetto delle famiglie che volevano integrarsi». Anche l’onorevole pd Patrizia Toia si indigna: «Nel campo di via Rubattino si stava compiendo un autentico miracolo. Chiedo al sindaco Moratti, all’assessore Moioli in quale scuola andranno domani quei bambini. Chiedo se si rendono conto che hanno interrotto colpevolmente un cammino di integrazione scolastica, il primo passo di un percorso che può cambiare la vita di quei bambini».

Se la Palestina e' negata da un Muro. Storia di un esproprio.

Di LUISA MORGANTINI
gia' Vice Presidente del Parlamento Europeo

Lo scorso 9 novembre tutti abbiamo festeggiato i 20 anni della caduta del muro di Berlino. Commozione e indignazione per quel simbolo di violenza e separazione fatto di cemento su cui donne e uomini e artisti da tutto il mondo hanno impresso le loro immagini colorate di libertà, nessuno, o quasi, ha ricordato che un muro alto 9 metri divide la Palestina. Un muro dell’apartheid e della violazione del diritto internazionale che Israele malgrado appelli, risoluzioni di parlamenti e assemblee delle Nazioni Unite continua a perseguire.
E davvero quasi nessun media ha mostrato le immagini di giovani palestinesi, israeliani e internazionali che a rischio della loro vita, nello stesso giorno in cui si commemorava la caduta del muro di Berlino, hanno aperto un varco nel muro a Khalandia e a Ni’lin e si sono presi uno spazio di liberta’.

La costruzione di quella che i vari governi israeliani hanno defininito “ Barriera difensiva” ha una lunga storia collegabile alla forma unica del colonialismo israeliano: risolvere la questione della presenza dei “nativi” e quindi non quella di sfruttare le risorse locali (anche se questo e’ uno degli elementi dell’ occupazione militare e della costruzione delle colonie) ma di impedire che vi sia una maggioranza della popolazione “nativa” per non mettere in discussione l’ ebraicita’ dello Stato di Israele.
Nel 1948 questo e’ stato ottenuto con l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi divenuti profughi e con la successiva distruzione di piu di 400 villaggi palestinesi. Nel 1967, guerra preventiva e di conquista territoriale, la stessa operazione non e’ riuscita, vi sono stati nuovi profughi (trecentomila) e molti che si trovavano all’estero per ragioni di studio o di lavoro non hanno potuto rientrare, ma la popolazione non e’ fuggita e’ rimasta attaccata alla terra di origine.
E’ nel 1994 che Ytzahak Rabin da’ il via alla costruzione di un muro intorno alla striscia di Gaza, prima verso il confine con l’ Egitto e poi tutto intorno alla striscia. Contemporaneamente inizia il controllo sui movimenti della popolazione palestinesi dei territori, impedendo l’ingresso a Gerusalemme agli abitanti della Cisgiordania e Gaza, istituendo centinaia e centinaia di posti di blocco tra le aree A. B e C definite dagli accordi di Oslo e costruendo km.e km. di strade all’interno dei territori occupati, espropriando (ovviamente senza compenso) terre di prorieta’ di villaggi o di individui palestinesi per espandere e collegare le colonie israeliane che hanno continuato ad estendersi.
Sempre Rabin, nel 1995, affida al Ministro per la Pubblica sicurezza Moshe Shachal l’incarico per valutare la separazione di Israele dai territori palestinesi con una barriera simile a quella di Gaza. Il progetto rimane accantonato fino alla fine del 2000 quando il Ministro, Laburista, Ehud Barack, decide dopo la provocazione di Sharon sulla spianata della Moschea di Al Aqsa e lo scoppio della seconda Intifadah di costruire una barriera nell’area di Latroun per controllare il passaggio dei veicoli palestinesi. Con il governo Sharon a partire dal Giugno 2001 si passa ai piani concreti di costruzione della “Barriera difensiva”, in realta di un Muro di annessione territoriale di intere aree palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.
La giustificazione addotta nelle prime fasi di costruzione del muro e’ stata quella della sicurezza, una barriera di separazione sarebbe stata in grado di impedire gli attacchi suicidi di estremisti palestinesi contro la popolazione civile israeliana. Sacrosanto dovere di ogni paese, e per questa ragione il progetto ha avuto l’appoggio con una campagna mediatica internazionale dei tre maggiori scrittori israeliani noti come appartenenti al campo della pace: David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua oltre che di molti politici del campo “illuminato”, i quali aggiungevano alle ragioni della sicurezza il fatto che con la separazione sarebbe stato piu’ semplice arrivare ad uno Stato Palestinese perche’ il muro ne avrebbe definito i confini. Ed in effetti il percorso del muro in successive dichiarazioni di diversi ministri Israeliani ne puo’ definire i confini.
Il problema e’: quali confini?
Non certo quelli riconosciuti dalla legalita’ internazionale: i territori occupati nel 67 che comprendono Gerusalemme Est. Il tracciato del muro, invece, entra profondamente nel territorio palestinese annettendo terre coltivate, distruggendo migliaia e migliaia di alberi di olivo centenari, alberi da frutta. Solo il 20 per cento del muro si snoda lungo i confini del 67, il resto penetra anche fino a 28 kilometri nel territorio occupato inglobando ed annettendo ad Israele, oltre i terreni coltivati intere colonie di popolazione ebraica, sopratutto quelle costruite nelle vicinita’ dei confini con Israele e che dividono in tre tronconi e in tanti Bantustan i territori palestinesi, impedendone la continuita’ territoriale necessaria ad ogni stato per esistere.
Il Muro o Barriera prende forme diverse: muro di cemento grigio alto tra i 6 e i 9 metri intorno a villaggi e citta’ come Qalqilya o Betlemme, mentre nelle aree rurali, la struttura e’ una barriera larga ottanta metri composta da elementi in successioni, filo spinato, trincea profonda 2.5 metri, pista di pattugliamento in terra battuta, barriera metallica alta tre metri, striscia di sabbia fine per rilevamento delle impronte, strada di pattugliamento asfaltata, seconda striscia di sabbia fine, filo spinato sistema di video sorveglianza. Secondo le rilevazioni UN-OCHA, la barriera ha solo 78 cancelli che possono permettere ai contadini di entrare nei loro terreni, ma di questi solo 38 sono stati aperti qualche ora al giorno e solo per palestinesi muniti di permesso, che ovviamente non viene concesso a quei palestinesi che pur proprietari di terra sono considerati pericolosi per la sicurezza, e basta avere fatto qualche giorno di prigione o avere dei figli o fratelli in carcere per essere nella lista di quelli che non avranno mai permessi.
Nel villaggio di Abu Dis, o Al Rahm, verso Kalandia, il muro divide la strada principale e separa la popolazione palestinese. Da una parte, quella annessa ad Israele con carta d’identita’ israeliana, dall’altra palestinese. La famiglia Boullata, viene separata del muro, padre e madre vivono dall’altra parte della strada e i figli nella casa di fronte dall’altro lato, Anthony invece ha la casa da una parte e il negozio dall’altra, deve rinunciare o alla casa o al negozio, e cosi centinaia di famiglie, perche il muro separa palestinesi da palestinesi, e, come ad Anata taglia il villaggio in due. Sempre UN-OCHA ha osservato che oltre 128.000 palestinesi saranno circondati dal muro su tre lati e controllati sul quarto da infrastrutture militari israeliane, mentre 69 insediamenti con piu’di 180.000 coloni, il 76% della Cisgiordania, oltre a piu’ di duecentomila nell’area di Gerusalemme Est saranno annessi ad Israele, inoltre 60.500 palestinesi residenti in 42 villaggi rimarrano chiusi tra il muro e la linea di confine.
La Commissione Economica del Parlamento Israeliano ha stimato il costo totale dell’ opera in 3.5 miliardi di dollari, equivalenti a oltre 4 milioni di euro al km., ogni km. nell’area rurale – secondo il Ministero della difesa Israeliano richiede mediamente 45mila mc. di scavo, 5mila mq. di asfalto, mille travi di cemento, 300 pali, 2.500 mq. di rete metallica e 12 km di filo spinato.
Era il 9 luglio del 2004 quando la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja proclamava che “La costruzione del muro da parte di Israele… nel Territorio Occupato Palestinese, incluso quello dentro e attorno a Gerusalemme Est … è contrario al diritto internazionale. Per questo Israele è tenuta a smantellarne la struttura… e a provvedere al risarcimento di tutti i danni arrecati…”.
La sentenza dell’Aja faceva seguito a varie risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite sollecitate dai ricorsi di cittadini e associazioni per i diritti umani palestinesi, israeliane e internazionali, mai prese in considerazione dai differenti Governi Israeliani semplicemente perché ritenute non vincolanti e non rilevanti.
La stessa arbitrarietà e noncuranza degli obblighi internazionali nella indifferenza, a parte dichiarazioni di condanna, dell’intera comunita’ internazionale ha permesso ai governi israeliani a distanza di 5 anni dalla sentenza dell’Aja di far avanzare il muro per altri 200 km circa nella West Bank, arrivando ad un totale di 413 km – circa il 60% dei programmati 730 km.
Questa palese volontà da parte del governo israeliano di espandere il proprio territorio con la costruzione del muro, ai danni del futuro stato palestinese, e’ sostenuta da politiche di incentivi economici e sociali destinate alle famiglie che si trasferiscono nelle colonie illegali della Cisgiordania; al costo già elevato del muro, vanno aggiunte anche le agevolazioni su mutui, riduzioni delle tasse, facilitazione dei servizi sociali e il massiccio sistema di protezione militare in difesa della colonie, a |Hebron all’interno della citta’ dove si sono installati 400 coloni, si calcola che i soldati a loro difesa sono piu’ di 1.500.
A dispetto delle varie dichiarazioni, dalla conferenza di Annapolis a quelle più attuali, che vedono nel congelamento delle colonie una delle premesse ineludibili per ogni accordo di pace tra Israele e Palestina, le colonie continuano a crescere in Cisgiordania: per Peace Now sarebbero oltre cento le colonie illegali nella West Bank, circa 15.000 gli Israeliani che si sono trasferiti negli insediamenti della West Bank dall'inizio del 2008 per un totale di oltre 250.000 coloni che vivono oggi nei territori occupati ed altrettanti o di più, a Gerusalemme Est, che contro ogni legge internazionale, Israele considera parte della propria Capitale unica e indivisibile e dove sta accellerando una politica di pulizia etnica, espellendo dai quartieri palestinesi di Sheikh Jarrah, Silwan, Bustan famiglie palestinesi per far posto a fanatici coloni ebrei, e con la demolizione delle case palestinesi: dal 1967 ad oggi sono stati costruiti 17 insediamenti che occupano circa il 35% del territorio di Gerusalemme Est, nei quali vivono più 200,000 coloni (OCHA- Office for Coordination of Humanitarian Affairs – www.ochaopt. org/), e tra il 1967 e il 2006 sono state demolite più di 8500 case palestinesi. Nei soli primi 4 mesi del 2009, l’OCHA ha registrato la demolizione di 19 strutture a Gerusalemme Est, che comprendono 11 abitazioni civili.
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Ma ormai da qualche anno, si va sviluppado nei territori occupati palestinesi la consapevolezza e la pratica di azioni continue e non violente per opporsi alla costruzione del muro. A Bil'in ( www.bilin-village.org) dove il muro ha eroso circa il 60% delle terre coltivabili ai 1600 abitanti del villaggio, sin dal 2005 i residenti di Bil’in riuniti nel comitato popolare stanno manifestando ogni Venerdi’ insieme ad israeliani ed internazionali per impedire l’avanzata di una colonia e la possibilita’ di coltivare la loro terra.
Proprio grazie a petizioni e alla resistenza non violenta del villaggio, la stessa Alta Corte di Giustizia israeliana si è pronunciata contro il tragitto del muro a Bil’in, invitando il Governo Israeliano ad attuare una via alternativa, invito ovviamente caduto nel vuoto, mentre colonie quali Mod’in iIlit e Mattityahu continuano a crescere.
La resistenza di Bil'in e’ diventata esempio per molti altri villaggi come Ni’lin, Massara, At Tuwani e altri nella Valle del Giordano, e continua a crescere, con l’appoggio esplicito del governo palestinese di Salam Fayyad, che oltre a recarsi nei villaggi, ha messo a disposizione dei Comitati Popolari per le loro spese legali una cifra mensile all’interno del bilancio governativo. Anche a livello internazionale si e’ costituita una rete di sostegno alla resistenza non violenta palestinese.
Il governo israeliano, come ha sempre tentato di fare con movimenti di resistenza non violenta, e’ deciso a distruggere I Comitati Popolari e la loro unione con israeliani e internazionali, per questo continua le incursioni notturne nei villaggi, arrestando giovani e adulti ed ogni Venerdi I manifestanti vengono aggrediti con gas e anche pallottole.
Ma la resistenza popolare non violenta continua con sempre maggiore creativita’ come quella del 9 Novembre quando pezzi di muro anche se per poco tempo stati scalzati.

A cinque anni dalla sentenza dell’Aja, e a venti anni dalla caduta del muro di Berlino e’ davvero tempo che la Comunità Internazionale prenda misure concrete, iniziando dall’embargo delle armi al disinvestimento di ogni azienda che collabori con l’occupazione militare israeliana nelle colonie, che l’ Unione Europea sospenda l’ accordo di associazione e non pratichi nessun potenziamento, come invece prevedenono gli accordi di vicinato dell’Unione Europea, con il governo israeliano. Le Autorità Israeliane non devono essere sempre considerate al di sopra della legalita’ internazionale, in nome della sicurezza.
Il rispetto del diritto internazionale, la fine dell’occupazione militare dei territori palestinesi, la fine dell’assedio imposto a Gaza che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili, lo smantellamento del muro,Il blocco totale della costruzione delle colonie e la liberazione dei prigionieri politici sono l’unica strada per la sicurezza dello Stato di Israele e per la liberta’, la giustizia e l’indipendenza del popolo palestinese.


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7 novembre 2009

7 Novembre : Donne in Nero a Vicenza


Donne in Nero

con le Donne di Vicenza

per la smilitarizzazione del nostro ambiente e delle nostre vite

“L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

(articolo 11 della Costituzione)

Ripudiare la guerra significa non solo non fare guerre, ma anche non costruire, vendere e acquistare strumenti di guerra: né basi né armi.

La produzione e il commercio di armi, la costruzione e il mantenimento di basi militari, tutto questo ci riguarda come cittadine che non si rassegnano alle scelte di guerra, ma si impegnano per contribuire alla costruzione di una società giusta, solidale e di pace prefigurata dalla Costituzione.

Noi pensiamo che l’uso della violenza e la cultura delle armi siano le più assurde, le più stupide, le più crudeli attività che l’uomo abbia messo in campo nel corso della storia.

Per affrontare i problemi sempre più gravi del nostro tempo non servono altre basi, altri soldati, altre armi, occorre la co-responsabilità e la collaborazione internazionale, la solidarietà civile, fuori da ogni logica militare e di potere.

Non vogliamo essere complici del militarismo, ovunque si manifesti e in particolare nel nostro paese, con la concessione dell'aeroporto Dal Molin per una nuova base militare statunitense, la crescente militarizzazione della Campania (dal porto di Napoli alle basi militari, dalle fabbriche di armi alle discariche…), il magazzino di armi nucleari ad Aviano, il continuo aumento delle spese militari, la costruzione dei cacciabombardieri F35, la partecipazione a spedizioni militari camuffate da missioni di pace…

La militarizzazione del territorio non solo non ci dà, ma ci toglie sicurezza e libertà.

Per sentirci più sicure abbiamo bisogno in primo luogo di rispetto e di riconoscimento della nostra libertà, dignità e autodeterminazione. In secondo luogo è necessario costruire sul territorio dei rapporti che siano orientati alla reciproca conoscenza, alla convivenza e alla solidarietà, e riconoscere alle cittadine e ai cittadini il diritto a partecipare alle scelte che riguardano il proprio territorio.

Per questo scendiamo in piazza con le donne di Vicenza

e insieme con loro dichiariamo la nostra opposizione

alla costruzione della nuova base Dal Molin

Donne in Nero

di: Alba, Bologna, Padova, Milano, Napoli, Novara, Ravenna, Schio, Torino, Udine, Verona

7 novembre 2009

6 novembre 2009

Ciao Alda , grande donna, grande poeta


LA PACE

La pace che sgorga dal cuore
e a volte diventa sangue,
il tuo amore
che a volte mi tocca
e poi diventa tragedia
la morte qui sulle mie spalle,
come un bambino pieno di fame
che chiede luce e cammina.
Far camminare un bimbo è cosa semplice,
tremendo è portare gli uomini
verso la pace,
essi accontentano la morte
per ogni dove,
come fosse una bocca da sfamare.

24 ottobre 2009

Congo : E’ molto più pericoloso essere un civile donna che essere un soldato



Oggi, nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo si riferisce di 1.100 stupri al mese, commessi sia dalle forze di sicurezza che dai gruppi ribelli. Come ha detto un diplomatico USA “E’ molto più pericoloso essere un civile donna che essere un soldato”
Articolo di Nadia Hijab "Abandoning Women and Children"
Nadia Hijab è Senior Fellow (docente anziano) presso l' Institute for Palestine Studies.

Abandoning "Women and Children" By NADIA HIJAB

T he United Nations Security Council has just passed a welcome resolution --U.N. Security Council Resolution 1888 -- that strengthens the international community's ability to tackle sexual violence in wartime. Sexual violence offences have already been included in the founding statute of the International Criminal Court and, as an earlier U.N. resolution reaffirmed, can constitute war crimes, crimes against humanity, or part of a genocidal pattern of conduct.

The issue certainly needs the world's attention. Rape as a weapon of war and the use of other sexual violence has reached horrifying levels. The perpetrators target women, aiming particularly to destabilize communities during and after a war ends. Up to half a million women were raped during the Rwanda genocide and 60,000 in the Balkan conflicts. In Sierra Leone, 64,000 women suffered war-related sexual violence. Today, in the in the eastern provinces of the Democratic Republic of Congo, 1,100 rapes a month are reported, committed by both security forces and rebel groups. As one U.S. diplomat noted, "It is far more dangerous to be a civilian woman than it is to be a soldier."
The importance of these resolutions is not only that they aim to end impunity for such crimes, which have often been swept under the rug in post-conflict negotiations. They also challenge entrenched cultural and traditional values that see sexual assaults as somehow less important than other crimes, even something that women "bring upon themselves."
Unfortunately, as ardent advocates of women's human rights tackle one set of unacceptable cultural practices, they reinforce another. The text of 1888 refers repeatedly to "women and children," as did other reports about the new resolution.
The phrase "women and children" is as problematic in peacetime as it is in wartime.
In peacetime, it reaffirms a patriarchal view still prevalent in most parts of the world -- that women are as helpless as children and that they cannot function without male protection and support. This problematic phrase, often used by well-meaning development organizations, reinforces the neglect of women's actual and potential economic roles. Instead of being integrated into the economic mainstream, women are sidelined into often market-irrelevant activities like handicrafts and sewing.
In wartime, the phrase "women and children" communicates three things: that all men are actual or potential fighters rather than civilians; that men are not in need of protection; and that women have no agency or capacity to act. It is worth examining each of these points separately.
The propensity to treat all men as potential fighters was most recently on display during the Israeli assault on Gaza this winter. At that time, media reports constantly underplayed the number of civilian casualties by focusing on the number of women and children killed. In fact, the total number of civilian dead according to human rights organizations stands at 1,172 unarmed civilians, of which more than half, 719, were men.
And men do actually need protection too. The assumption that they are potential fighters means, for example, that they are more frequently killed on sight or taken prisoner to facing inhuman treatment and conditions. In countries that still have military conscription, young men can be badly brutalized without any recourse or defense. In Armenia, for instance, hazing in the military was so bad that some young men chose suicide as the only way out.
Finally, women not only have the capacity to act, they are, as experts note, often the ones who enable entire communities to survive war and armed conflict. However, their capacity for economic, social, and cultural action has yet to translate into a commensurate role at the political table.
Resolution 1888 is an important step toward taking advantage of women's agency. It highlights those areas where women are particularly targeted in conflict so that these assaults may be appropriately treated as the crimes that they are, bringing an end to impunity. And it reinforces earlier resolutions that sought to ensure women's fair representation in post-conflict peacemaking as well as in peacekeeping operations.
But these important steps should not hide the fact that -- for the sake of women as well as men -- we need to stop using the phrase "women and children." When it is necessary to draw attention to the fact that many of those targeted are girls below 18 -- the formal end of childhood in the international Convention on the Rights of the Child -- then the speaker or writer should simply say so. Otherwise, we are only dealing with part of the problem; we are marginalizing women in development processes; and we are privileging some human rights over others.

13 ottobre 2009

NO A LEGGI REPRESSIVE E RAZZISTE CONTRO LE DONNE MIGRANTI


Lottiamo da decenni insieme alle altre donne contro ogni forma di oppressione di genere sia essa legata alla religione che alle tradizioni patriarcali. In questo senso crediamo che le donne che velano la propria identità e il proprio corpo vivano oggettivamente un’oppressione e che la strada per l’autonomia delle donne nel mondo sia ancora ardua per tutte.

Crediamo che leggi che prevedono l’arresto per le donne con velatura integrale non possano sciogliere il nodo di culture non rispettose della libertà femminile.

L’ispirazione della proposta di legge presentata dalla Lega si muove nell’ambito di una serie di provvedimenti tutti inseriti nella cornice della cosiddetta “sicurezza”. Il crudele accordo con la Libia sui respingimenti e il “pacchetto sicurezza” sono ispirati da una logica repressiva che fa leva sugli egoismi e sulle paure sapientemente indotte da propagande politiche di stampo fascista e razzista o da provvedimenti istituzionali tipo “ autobus adibiti a rastrellamenti di clandestini” o assurde proposte di autobus separati tra italiani e stranieri o il “tetto” di bambini stranieri nelle classi, o i CIE ormai luoghi di sopraffazione e violenza anche per le donne che non possiamo più ignorare, e chi più ne ha più ne metta.

Questa nuova proposta di legge della Lega potrebbe alimentare ulteriori forme di violenza , odio e intolleranza verso chi si presenta “diverso” o “debole” come già avviene. Aggressioni soprattutto ad opera di giovani ispirati da ideologie di stampo fascista/razzista, nei confronti di migranti, gay e lesbiche, anziani, gente emarginata e senza fissa dimora, per non parlare della recrudescenza della violenza contro le donne in genere, sono avvenimenti che sperimentiamo ogni giorno anche personalmente.

Ci preoccupa il degrado culturale e sociale che si sta diffondendo nel nostro Paese, ma soprattutto il consenso diffuso che certi provvedimenti istituzionali e comportamenti quotidiani stanno riscuotendo.

Contro tutto questo sono necessarie l’attenzione e la ribellione personale di ognuna di noi contro ogni forma di sopruso e maltrattamento, la partecipazione alla vita democratica e l’attivazione di uno slancio civile collettivo.

14 ottobre 2009 DONNE IN NERO di BOLOGNA

www.donneinnerobologna.blogspot.com donneinnero.bo@gmail.com

11 ottobre 2009

Le donne della realtà non sono nella disponibilità del Premier


Cartolina dall'Unità.it

Venerdì 9 ottobre 2009
di Donne della realtà dal Paese delle Donne

Lettera aperta a:
ministro della Giustizia Angelino Alfano,
viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli,
presidente dell’Udc Pier Ferdinando Casini,
e ai giornalisti Bruno Vespa e Riccardo Barenghi
Gentili Signori,
vogliamo esprimere il nostro stupore e la nostra indignazione per il silenzio colpevole che è sceso nello studio di Porta a porta, nel corso della trasmissione di mercoledì 7 ottobre, sull’insulto greve e intollerabile rivolto in diretta dal presidente del Consiglio all’onorevole Rosy Bindi come persona prima ancora che come donna.
Siamo un gruppo di giornaliste, convinte che sia necessario riportare sui nostri media un modello di donna più aderente alla realtà, parlare delle italiane che lavorano credendo nei valori dell’impegno e della professionalità, della cultura e dell’intelligenza, e non lasciare che le donne siano rappresentate unicamente come persone che preferiscono puntare sulla propria bellezza e sulla disponibilità dell’uomo potente di turno per fare carriera e ottenere favori. Abbiamo lanciato un appello in questo senso a inizio agosto e lunedì scorso abbiamo tenuto a Milano il primo di una serie di dibattiti sull’argomento che intendiamo proporre in molte altre città.
L’incapacità di indignarsi e di reagire con fermezza da voi dimostrata di fronte a un commento volgare, ingiustificato ed estraneo a corretti rapporti personali, ci ha lasciate davvero esterrefatte. L’indifferenza è il passo ultimo prima dell’accettazione supina di quella cultura priva dei valori di rispetto e considerazione dell’altro, e in particolare delle donne, che noi vogliamo denunciare e combattere.
Le donne della realtà non sono nella disponibilità del Premier né di chiunque pensi di poterle usare a proprio piacimento. Le donne della realtà vivono, lavorano, soffrono, gioiscono, ma prima di tutto esigono rispetto. Da tutti.
Cordiali saluti,
Paola Ciccioli
Francesca Mineo
Cristina Morini
Letizia Mosca
Daniela Stigliano

10 ottobre 2009

La marcia per la pace Perugia-Assisi si trasferisce a Gerusalemme.


"Time for Responsibilities", 10-17 ottobre 2009


Luisa Morgantini parteciperà alla missione di pace per il MO accompagnando gruppi della società civile nei villaggi della resistenza non-violenta di Palestinesi, Israeliani e Internazionali

Roma, 10 ottobre 2009

Si svolgerà da oggi al prossimo 17 ottobre a Gerusalemme, in Israele e nel Territorio Palestinese Occupato la tradizionale marcia per la pace Perugia-Assisi, quest’anno denominata "Time for Responsibilities”.

Organizzata dal Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, la Piattaforma delle Ong italiane per il Medio Oriente e la Tavola della pace, si tratta di una delle più grandi Missioni Italiane di Pace in Medio Oriente, dopo quella di Time for Peace alla fine de 1990 e di Action for Peace nel 2002, a cui hanno aderito oltre 400 italiani tra semplici cittadini, giovani, studenti e insegnanti, sportivi, artisti, giornalisti, amministratori locali e rappresentanti di associazioni, che seguiranno un programma fitto di incontri con rappresentanti della società civile israeliana e palestinese e si muoveranno sul territorio divisi in gruppi.

Luisa Morgantini dell'Associazione per la Pace e già Vice Presidente del Parlamento Europeo parteciperà alla missione e accompagnerà i gruppi nei villaggi di Bil’in, Nil’in e Masara dove Palestinesi, Israeliani e Internazionali sono uniti nella resistenza popolare non violenta contro muro e occupazione.

Domenica 11 ottobre, Luisa Morgantini e parte della missione saranno ad Abud – villaggio noto per i frequenti attacchi da parte dei coloni israeliani ai danni dei contadini palestinesi durante la raccolta delle olive- alla presenza anche del Premier Palestinese Salam Fayyad e di diplomatici internazionali.

Giovedì 15 ottobre a Gerusalemme si svolgerà il grande evento ‘Ricostruiamo la speranza’, una manifestazione-incontro per la pace con i familiari delle vittime palestinesi e israeliane del Parents Circle, associazione che riunisce centinaia di famiglie colpite dal lutto ma che da anni si adoperano per la distruzione della figura del nemico e della vendetta.

"Time for Responsibilities" è la diplomazia dei popoli che si assumono la responsabilità di agire in prima persona per la giustizia e la pace ma anche un modo per far conoscere la realtà quotidiana dell’occupazione. Non potremo recarci a Gaza, ma il nostro totale sostegno va alla popolazione diella Striscia ancora sotto assedio ed il nostro impegno per la fine dell'embargo e il ristabilimento della legalità internazionale con la fine dell'occupazione militare e l'assunzione del rapporto Goldstone da parte del Consiglio di Sicurezza dell' ONU.

"Time for responsabilities" è per ognuno di noi e per i governi del mondo” ha dichiarato Luisa Morgantini, che parteciperà inoltre, insieme a Palestinesi, Israeliani, rappresentanti diplomatici europei e statunitensi ad una conferenza sul ruolo e le responsabilità dell’Europa per una pace giusta in Medio Oriente e per la fine dell’occupazione militare.

Per informazioni, dichiarazioni e testimonianze:

Luisa Morgantini +972 527 251612 (telefono cell. locale) o 0039 348 39 21 465 (cell. Italiano)

9 ottobre 2009

IL LODO ALFANO E’ ILLEGITTIMO

Consideriamo quello della corte Costituzionale un pronunciamento importante che attesta che la nostra Costituzione è viva e tuttora garante dei diritti di uguaglianza e libertà per tutte e tutti.
Questa conferma coincide anche con quel sentimento collettivo che si è espresso con la grande manifestazione di sabato 3 ottobre sulla libertà di stampa e informazione, cui abbiamo aderito, convinte che sia importante difendere la democrazia in questo Paese in cui si cerca di imporre ad ogni costo un pensiero unico.
Siamo tutte/i responsabili della salvaguardia della democrazia e del rispetto delle sue regole.

3 ottobre 2009

Perché partecipiamo alla manifestazione del 3 ottobre a Roma



Partecipiamo alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà di stampa e di informazione considerandolo un appuntamento importante per difendere la democrazia in questo paese in cui si cerca di imporre a tutti i costi un pensiero unico.

Lo slogan Dovere di informare, diritto di sapere è sicuramente un buon punto di partenza ma la cosa importante è sapere cosa si intende e soprattutto se c’è una volontà di allargare i campi dell’informazione e includere le pratiche e gli eventi che esulano da quelli che sono i classici ambiti della politica, in tal senso sarebbe interessante sperimentare una maggiore curiosità e disponibilità delle testate locali e nazionali a dar conto di una pluralità di modi di esprimersi politicamente da parte della nostra società così complessa e variegata.

Il nostro ormai ventennale impegno all’interno della Rete Internazionale delle Donne in Nero, per la libertà dalle guerre, da ogni tipo di violenza e sopruso nel mondo a partire dai luoghi in cui si agisce, ha sempre compreso la difesa della libertà di espressione/informazione e stampa.

Non abbiamo però mai potuto dichiararci soddisfatte di come la stampa e i media in genere, garantiscono il dovere di informazione in molti paesi del mondo e anche nel nostro, riguardo alle donne, ai loro movimenti, alle loro pratiche.

Non dare conto delle migliaia di attività politiche e sociali che molte donne svolgono in questo paese, non restituisce l'immagine di un luogo abitato solidamente ed attivamente da due generi e non solo.

Le donne agiscono con pratiche politiche diverse da quelle degli uomini ma contribuiscono più di loro alla costruzione di società e civiltà attraverso una politica delle relazioni che unisce invece di dividere senza per questo oscurare le diversità ma piuttosto facendone tesoro.

Il realtà, pur essendo generalmente bistrattate dai media le donne non sono estranee al mondo mediatico e soprattutto nel mondo dei siti e dei blog sono presenti in modo attivo, significativo e variegato riscuotendo anche successo e interesse.

Noi donne non siamo né siamo mai state in silenzio e inattive malgrado la stanchezza e la fatica di una resistenza testarda rispetto ai continui attacchi e tentativi di annullare le nostre conquiste di libertà, tra queste anche quella di espressione a partire dal nostro corpo.

Vogliamo inoltre ricordare le giornaliste che hanno dato tanto al giornalismo di indagine e di denuncia soprattutto in tema di guerre, e che per questo hanno trovato la morte per mano di sicari , valgano per tutte Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli e per allargare lo sguardo fuori dal nostro paese, anche Anna Politkovskaja, Natalia Estemirova e tante altre in tutto il mondo.

DONNE IN NERO di BOLOGNA

www.donneinnerobologna.blogspot.com





1 ottobre 2009

Venerdì 2 ottobre : STRANABOLOGNA

Appello delle Feministas en Resistencia in Honduras


Riceviamo l’appello delle Feministas en Resistencia in Honduras.


Con la presente, le Feministas en Resistencia dell'Honduras denunciano la repressione brutale che oggi e' stata attuata contro le persone che si sono riunite pacificamente di fronte all'ambasciata del Brasile in Honduras, dopo avere appreso che il presidente Presidente Manuel
Zelaya si e' rifugiato là.

La gente e' stata attaccata nella prima mattinata con gas, acqua e un apparecchio che emette rumori assordanti.

Alcuni sono stati feriri e portati in ospedale.

Ieri il governo de facto ha proclamato un coprifuoco nazionale a cominciare alle ore 16, quando la maggior parte degli operai honduregni sono ancora al lavoro. Il coprifuoco e' durato fino alle 7
del mattino. Nel frattempo il governo ha proclamato un nuovo coprifuoco dalle 7 alle 16 di oggi.

Vogliamo diffondere, nel modo più ampio possibile, il fatto che abbiamo paura per le nostre vite, a causa dell'aggressione continua e crescente dimostrata dall'esercito contro quelli che richiedono la restaurazione dell'ordine costituzionale.

La situazione in Honduras è peggiorata nella settimana scorsa. Ieri (28) e' stato emesso un decreto che permette arresti e perquisizioni senza accuse o autorizzazioni, e che abroga i diritti di libertà di
assemblea, di movimento, di stampa e di parole.

Canale 36 e Radio Globo sono stati chiusi oggi (il 29) dopo che il governo de facto ha pubblicato un decreto sospendendo 6 articoli della costituzione per un periodo di 45 giorni. Le due emittenti sono state invase dalle forze armate e di polizia, che sono entrate alle 5.30.
Fascicoli e apparecchi sono stati confiscati da Radio Globo. Canale 36 e' stato circondato dall'esercito e le trasmissioni sono state bloccate. Alcuni giornalisti hanno dovuto scappare dalle finestre.
Il decreto autorizza la chiusura di "ogni media che minaccia la pace e l'ordine pubblico" o che "attacca la dignita' umana di ufficiali pubblici o decisioni del governo.” Richiede l'arresto di "persone considerate sospette" aggiungendo che devono essere portate nei "centri
di detenzione, legalmente stabiliti".

Si dice che il governo ha ordinato l'arresto di attivisti e la loro detenzione in uno stadio.

Centinaia di soldati hanno disperso una manifestazione all' Universidad Pedagógica Nacional- Francisco Morazán, dove centinaia di persone si sono riunite per marciare verso l'ambasciata del Brasile.

Soldati sono stati dispiegati nei punti chiave di Tegucigalpa e in tutto il paese per bloccare la gente che voleva andare alla manifestazione.



29 settembre 2009

Beato il mondo quando non avrà più bisogno di eroi



Di Simonetta Salacone

Lettera aperta della dirigente scolastica della scuola Iqbal Masih di Roma; questa lettera aperta è stata affissa ai cancelli delle scuole del circolo didattico 126° ed è stata inviata a giornali e agenzie di stampa.
A tutti quelli che vorranno leggermi.
In relazione alla vicenda che, mio malgrado, ha riportato me e la scuola che dirigo sui mass media ho da dire quanto segue: per carattere, formazione e professionalita´ non uso mai l´enfasi, la retorica, i toni stentorei, ma la riflessione articolata, anche fortemente critica, ma espressa con registri bassi e moderati; di ogni decisione che mi compete prendo la diretta responsabilita´. In questo caso di non aver inoltrato ai/alle docenti la circolare del ministro Gelmini, arrivata a scuola alle ore 11,30 del giorno 21/9 con la quale si invitava ad osservare un minuto di silenzio alle ore 12 dello stesso giorno per i 6 morti in missione di pace e ad attuare una "riflessione solidale" con gli alunni.
I tempi stretti con cui la circolare arrivava impedivano, di fatto, una riflessione con le/gli insegnanti come era, invece, avvenuto in altre situazioni simili. Poiche´ la scuola non e´ una caserma e i/le docenti non ricevono ordini, molte insegnanti, soprattutto dei piu´ grandi, hanno affrontato l´argomento in classe, con diverse modalita´ e ritualita´.
Sulle modalita´ pedagogiche con le quali la scuola gestisce l´informazione sui sempre piu´ frequenti eventi drammatici nazionali e mondiali che e´ chiamata ad affrontare, ho convocato tempestivamente un collegio dei docenti, per favorire riflessione e confronto, nei primi giorni del mese di ottobre. Il presidente del consiglio di circolo ha convocato sulla stessa tematica una riunione aperta ai genitori, per il giorno 30 settembre.
In molte scuole del paese la circolare del ministro non e´ arrivata. Molte scuole hanno accolto l´invito ad osservare il minuto di silenzio, molte no. La stampa e la tv, pero´, non hanno effettuato consultazioni e ricerche nel merito, quindi non si ha il polso complessivo della situazione.
Provo dolore e sincera partecipazione al dolore delle famiglie dei soldati morti. Lo aggiungo al dolore che quotidianamente provo per le tantissime vittime civili innocenti di questa e di tutte le guerre che si stanno svolgendo in giro per il mondo.
Mi chiedo pero´ : perche´ non abbiamo fatto un minuto di silenzio il mese scorso, quando e´ morto in un attentato in Afghanistan un soldato di Campobasso?
E´ il numero che fa massa critica per il cordoglio di stato? O non e´ il momento in cui, facendo appello al dolore di tanti, si tenta di ricompattare una opinione pubblica molto divisa sui temi della cosiddetta "missione di pace"?
Mi auguro che, a partire dalla polemica che ho involontariamente aperto, in molti istituti si apra il dibattito su cosa effettivamente possa e debba fare la scuola sui temi delicati dell´attualita´, per non essere tacciata ne´ di conformismo e obbediente acquiscienza, ne´ di uso ideologico dei fatti.
Nessuno ha la verita´ in mano. Casomai abbiamo la Carta costituzionale che all´articolo 11 afferma che "l´italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie".
Quella in Afghanistan e´ sempre piu´ una guerra che uccide civili e militari, che acuisce l´estremismo, che fa regredire la democrazia e la solidarieta´ sociale, che copre la corruzione di parte della classe dirigente, che alimenta l´odio della popolazione contro l´occidente...
La situazione e´ cosi´ complessa che, trasversalmente alle parti politiche, nel nostro paese e in tutto l´occidente ci si interroga con preoccupazione su come uscirne e su come rilanciare nell´Afghanistan e in tutto quello scacchiere orientale (Iran, Pakistan, Irak) un processo di pacificazione, compromesso in passato dall´idea malsana che si possa esportare la democrazia con le armi.
Personalmente, venendo da una militanza giovanile in un movimento nonviolento, continuo a ritenere che le azioni di pace siano costruire scuole, ospedali, biblioteche, teatri, centri culturali.... La nostra scuola, da quando e´ stata intitolata ad Iqbal Masih, bambino pakistano ucciso dalla mafia dei tappeti, ha adottato da anni una scuola per bambini di caste basse in Pakistan e ne finanzia la frequenza.
Sul muro di ingresso del nostro plesso centrale sono riportate le parole del piccolo Iqbal : " i bambini hanno bisogno di avere in mano quaderni e matite, non attrezzi da lavoro.." Aggiungo di mio "i bambini hanno bisogno di pace per crescere. non possiamo continuare a dissipare risorse nelle guerre. Le guerre si prevengono e si risolvono con azioni di pace (anche rischiose, pericolose, eroiche, quali sono quelle che quotidianamente tanti volontari, giornalisti, missionari, dottori, maestri, sindacalisti ...compiono, mettendo a rischio la vita)" Parafrasando Brecht aggiungo "Beato il mondo quando non avra´ piu´ bisogno di eroi". Questa ripropongo oggi come filosofia al mondo della scuola, alle insegnanti e agli insegnanti, ai genitori e a tutti noi che abbiamo a cuore il futuro del mondo

Festa dell'Unità sponsorizzata da fabbrica di armi

Bersani (PD): "Essere pacifisti non significa mica essere disarmati"


La Festa dell'Unità di Alessandria sponsorizzata da una fabbrica di armi
Riportiamo uno spezzone di intervista a Pierluigi Bersani che tenta di giustificare la sponsorizzazione della Oto Melara (Finmeccanica) alla Festa dell´Unità in cui interviene come oratore.
1 settembre 2009 - Alessandro Marescotti

Guardando il volantino di questa Festa dell´Unità abbiamo trovato la pubblicità di una ditta che produce armi.

Crede che questo possaessere coerente con i valori di un partito come il PD?


Essere pacifisti non significa mica essere disarmati. In Italiaabbiamo anche fabbriche d´armi; alcune sono secolari. Non c´è nessuna polizia disarmata nel mondo. Nel nostro Paese ci sono anche tecnologie che sono al servizio di armamenti che devono servire alla sicurezza collettiva. Detto questo, io credo che la spinta verso le tecnologie possa essere maggiormente orientata nei settori civili. Io ho in testa che nei prossimi cinque - dieci anni dovremo buttare tutta la nostra innovazione sui temi dell´economia verde, che mi pare la vera nuova grande frontiera tecnologica.

Quindi pensa che la pubblicità di un cannone, come in questo caso, possa avere un senso?

Insomma, esiste un esercito, no? Non è che possiamo abolire l´esercito credo, purtroppo, per adesso.

Festa dell'Unità ad Alessandria - all' ex GIL : dal 27 agosto al 6 settembre 2009

18 settembre 2009

L’Italia finanzia le violenze contro le donne migranti : presidio a Bologna

Mercoledì 23 Settembre dalle ore 18

PRESIDIO

Piazza Nettuno, Bologna

Sono tante le testimonianze dei soprusi e delle torture subiti dalle persone detenute nei centri di concentramento libici, ma per le donne, oltre alle torture, il trattamento prevede violenze sessuali e stupri di gruppo! L’Italia, finanziando la polizia e le carceri libiche e respingendo donne e uomini verso la Libia, è complice di queste atroci violenze.

Dalla frontiera meridionale libica ogni anno entrano migliaia di migranti e rifugiati sprovvisti di documenti, alcuni dei quali poi continuano il viaggio verso l’Italia. Anche se uomini e donne africani che arrivano via mare rappresentano una minima parte dei migranti senza documenti presenti in Italia, il governo italiano ha concentrato attenzione e risorse sugli sbarchi, poiché essi rappresentano il simbolo della prospettiva emergenziale costruita da anni sul tema dell’immigrazione: sul regime di paura alimentato dalla menzogna dell’”invasione” si gioca la propaganda razzista e criminalizzante del governo, ormai istituzionalizzata nel pacchetto sicurezza.
In base agli accordi tra il governo italiano e il governo libico e alle nuove politiche migratorie inaugurate dall’Italia, le donne e gli uomini provenienti dalla Libia, anche se quasi mai di nazionalità libica, vengono “respinti” senza avere la possibilità di arrivare in Italia e di presentare richiesta di diritto d’asilo, di cui la maggior parte di loro è a tutti gli effetti titolare. Da quando sono cominciati i respingimenti in mare sono stati finora oltre 1.200 le persone che le autorità italiane hanno riconsegnato alla Libia. Durante la detenzione nelle carceri libiche, uomini e donne subiscono violenze inaudite e vere e proprie torture, “Abusi, vessazioni, maltrattamenti, arresti arbitrari, detenzioni senza processo in condizioni degradanti, torture, violenze fisiche e sessuali, rimpatri di rifugiati e deportazioni in pieno deserto. Crimini che l’Unione europea finge di non vedere…” queste le amare conclusioni di un rapporto curato da Fortress Europe nel 2007.
Le donne in particolare subiscono, oltre alle violenze fisiche e psicologiche, stupri ripetuti e collettivi. In seguito alle violenze sessuali, molte di loro rimangono incinte e sono costrette a ricorrere ad aborti clandestini, che spesso le uccidono.

E non è che le cose in “patria” vadano meglio: nei CPT (oggi CIE) viene applicato lo stesso progetto repressivo e violento. Ne è una prova la protesta al CIE di via Corelli a Milano, soffocata dalla violenza delle Forze dell’Ordine. I processi si svolgeranno il 21 e il 23 settembre e vedono implicato anche l’ispettore capo di servizio al centro, accusato da una partecipante alla protesta di tentata violenza sessuale.
Paradossalmente tutto questo viene fatto al fine di garantire la “sicurezza “ dei cittadini e delle cittadine italiane e anche in nome della violenza contro le donne. La ministra Carfagna ha sostenuto, nell’incontro con Gheddafi dello scorso giugno, di voler aiutare le donne africane, e ha presieduto in questi giorni un G8 contro la violenza alle donne escludendo i centri antiviolenza. Di fatto però l’Italia finanzia attivamente le violenze contro donne e uomini migranti con importanti stanziamenti finanziari e di mezzi alla Libia. Del corpo delle donne viene sempre fatto un uso strumentale, viene data risonanza mediatica solo agli stupri di stranieri su donne italiane, quando le violenze commesse da uomini migranti costituisce solo una minima parte delle violenze agite sulle donne nel nostro paese. La maggior parte della violenza avviene all’interno della famiglia cosiddetta “normale”, promossa e protetta e al centro di tutte le politiche sociali.

A proposito dell’uccisione di Sanaa - Comunicato delle Donne in Nero di Bologna


L’uccisione di Sanaa da parte del padre è prima di tutto un fatto gravissimo che ci colpisce tutte, native e migranti.
Ancora una volta una donna paga il proprio diritto a scegliere sulla propria vita, così come pagano tutte le donne che vogliono porsi al di fuori delle regole della cultura patriarcale.
Non si tratta di una questione religiosa ma di tradizioni e di culture che giustificano la punizione delle donne in quanto il loro corpo è il depositario dell’identità, dell’onore della famiglia e della comunità. Tutto questo naturalmente accentuato dall’inevitabile conflitto generazionale.
Non dimentichiamo che la legge italiana sul delitto d’onore è stata eliminata solo nel 1981, quando già in Italia avevamo conquistato diritti molto avanzati (divorzio, aborto,consultori, addirittura il nuovo diritto di famiglia che stabilisce la parità tra donne e uomini, pari opportunità, ecc.), mancava solo quella legge a riprova non di una distrazione, ma di una tradizione e dei costumi molto resistenti in alcune zone del Paese, dove le donne erano costrette a sposare il proprio stupratore per risarcire l’onore del padre e della famiglia , finché una donna coraggiosa, Franca Viola, pose in discussione l’usanza e la rifiutò cambiando il corso della storia.
Crediamo che sia necessario continuare a lottare ogni giorno contro queste tradizioni patriarcali e nello stesso tempo contro il razzismo che si nasconde dietro l’idea di presidi contro il burqa da parte di gruppi di orientamento fascista e dietro le dichiarazioni della ministra per le Pari Opportunità anche se manifesta l’intenzione da parte del Governo di costituirsi parte civile.
Nello stesso momento in cui “si strappano le vesti” per questo delitto, dopo aver approvato una legge crudele sulla migrazione, finanziano un accordo con la Libia di Gheddafi che si ripercuote dolorosamente sui corpi e sulla vita delle donne migranti che nei campi di concentramento libici subiscono ogni sorta di violenza o trovano la morte in mare insieme ai loro compagni di sventura.
E’ quindi necessario stabilire relazioni sempre più intense e diffuse che ci permettano di confrontarci sulle nostre realtà e su come la convivenza possa essere positiva sia per le migranti che per la native.
Le donne agiscono con pratiche politiche diverse da quelle degli uomini ma contribuiscono più di loro alla costruzione di società e civiltà attraverso una politica delle relazioni che unisce invece di dividere, senza per questo oscurare le diversità, ma piuttosto facendone tesoro.
Un primo momento d’incontro sarà comunque mercoledì 23 settembre in piazza Nettuno alle ore 17 per la manifestazione contro i respingimenti promossa da Altra Città a cui abbiamo aderito come Donne in Nero

9 settembre 2009

Afghanistan, Agnoletto: "Decine di civili ammazzati e nessuno s'indigna"

FOTO BBC



*DA DISPENSATORI DI DEMOCRAZIA SIAMO DIVENTATI CORRESPONSABILI DI AZIONI CRIMINALI»*
Milano, 4 settembre 2009 - «Ufficialmente i nostri soldati sono in Afghanistan con la Nato per diffondere la democrazia, nei fatti ogni giorno che passa aumentano i morti innocenti, vittime del fuoco occidentale. Ormai siamo corresponsabili di veri e propri omicidi. E chi uccide un innocente è un assassino, come tale deve essere trattato e non celebrato come un eroe.
I mandanti di queste stragi dovrebbero essere processati da tribunali internazionali e non restare inpunemente ai loro posti di comando politico e militare.
Oltretutto, azioni simili aumentano l'opposizione della popolazione locale alla Nato e fanno crescere l'appoggio verso i talebani. Quanti altri morti civili ci vorranno prima che l’Italia decida definitivamente di ritirare le proprie truppe dall’Afghanistan? E perché la vita di un soldato occidentale vale sempre più di quella di un “normale” cittadino afghano?

Rilanciamo la campagna per il ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan: è necessario organizzare in tempi brevi una mobilitazione nazionale».

Così VittorioAgnoletto, ex eurodeputato Sinistra europea, commenta l’attacco aereo della
Nato che avrebbe provocato decine di vittime civili nel nord dell’Afghanistan. «Se un militare europeo si ferisce l’opinione pubblica si ricorda per un momento di quanto accade a Kabul, mentre bambini, donne e anziani uccisi “per sbaglio” dai militari della missione Nato non interessano ormai più a nessuno. Il governo italiano parla tutti i giorni di rispetto della vita umana e poi celebra con orgoglio la partecpazione a missioni omicide».
Vittorio Agnoletto, ex eurodeputato Sinistra europea,
www.vittorioagnoletto.it

Un'altra buona notizia : niente frustate per Lubna per aver indossato i jeans

Sudan, la vittoria di Lubna: niente frustate

UNA multa di 500 sterline sudanesi, circa 140 euro: in molti ieri mattina avevano salutato come una vittoria il verdetto salomonico con cui la giustizia sudanese sperava di togliersi dall' imbarazzo condannando sì la giornalista che il 3 luglio aveva osato indossare un "indecente" paio di pantaloni a Khartum, ma risparmiandole le frustate previste dal controverso articolo 152 del Codice penale. Lubna Ahmed Hussein no: per lei, che era «pronta a subire anche più di 40 frustate» purché tutti sapessero quel che succede in Sudan, «l' incostituzionalità» e indecenza, questa sì, di un sistema che priva le donne della libertà d' indossare quel che vogliono restava. E per denunciarlo s' è rifiutata di pagare la multa pur consapevole di andare incontro a un mese di carcere. I giudici di Khartum, che speravano di appigliarsi all' immunità diplomatica di cui Lubna godeva in quanto impiegata dell' Onu, il 4 agosto si erano presi un mese in più di tempo una volta che la Hussein s' era dimessa dal suo incarico presso l' Unmis. L' imbarazzo era evidente. Da quando nel 1991 la giunta militare guidata dall' attuale presidente Omar al-Bashir aveva introdotto la legge islamica, sharia, nel Nord Sudan, almeno 20mila donne erano state arrestate e frustate in base all' articolo 152 che, spiegava la stessa Hussein a Repubblica alla vigilia dell' ultima udienza, «vieta d' indossare abiti che causino pubblico imbarazzo senza però specificare quali». Poiché, aggiungeva Lubna, «nessuno in Sudan crederebbe che un paio di pantaloni possa costituire una violazione, molte donne, una volta arrestate, si sono sottoposte alla condanna senza obiettare né poi dire nulla ai familiari perché non sarebbero state credute. Tutti, a partire dai loro mariti, genitori o fratelli, avrebbero sospettato che avessero commesso adulterio o un reato più grave per essere state condannate a una pena così severa». È per questo che migliaia di arresti effettuati col pretesto dell' articolo 152 dal 1991 a oggi erano passati sotto silenzio. Ogni giorno venivano arrestate e frustate donne per il loro modo di vestire. Nessuna di loro ne parlava e nessuno veniva a saperlo. Finché a parlarne non è stata Lubna, che del resto non aveva mai risparmiato critiche al regime sudanese dalle colonne del giornale Al Sahafa. Il 3 luglio con lei erano state arrestate altre 12 donne perché indossavano un paio di pantaloni. In dieci si erano dichiarate colpevoli e due giorni dopo avevano subito 10 frustrate e pagato una multa di circa 70 euro. Lubna no. S' era rifiutata di dichiararsi colpevole e aveva rivendicato il suo diritto a essere assistita da un avvocato. Come lei, altre due donne. Lubna però era andata oltre, invitando giornalisti e funzionari internazionali ad assistere all' udienza. «Volevo che tutti sapessero che in Sudan può accadere anche questo, essere frustrate per un paio di pantaloni».E c' è riuscita. Ieri ad aspettarla alle porte del tribunale e a salutarla prima che venisse trasferita nel carcere femminile di Omdurman c' erano centinaia di donne sudanesi, tutte in pantaloni, incuranti dei manifestanti musulmani che le chiamavano «prostitute» e pure della polizia che, intervenuta per disperderle, ne ha arrestate 48 prima di rilasciarle. «È stata Lubna - ha detto una di loro - a darci coraggio». - ROSALBA CASTELLETTI

7 settembre 2009

Un'ottima notizia: Sayed Perwiz Kambakhsh è libero!


Sayed Perwiz Kambakhsh, segretamente graziato da Karzai, è libero e ha lasciato l'Afghanistan (dal sito di Repubblica)

E' stato liberato e ha lasciato l'Afghanistan il giovane giornalista afgano Sayed Pervez Kambaksh, condannato a morte per "blasfemia". In realtà la sua "colpa" era unicamente quella di essersi occupato dei diritti delle donne. La notizia del rilascio è stata data dal quotidiano britannico The Independent sul suo sito online con la precisazione che il giornalista è stato "segretamente graziato dal presidente Hamid Karzai". Ed è stata poi confermata sia dal fratello che dal legale del reporter."Posso confermare la grazia e il rilascio che risale a due settimana fa - dice l'avvocato Afzal Nooristani - ma non posso confermare che sia fuori dal Paese per problemi di riservatezza".

Secondo l'Independent, giornale in prima fila nella campagna internazionale per salvare il giornalista, "Kambaksh è stato trasferito dalla sua cella nel carcere principale di Kabul un paio di settimane fa e custodito in un luogo sicuro per alcuni giorni prima di lasciare il Paese in aereo. Prima di partire ha parlato di come il suo sollievo sia misto a profonda tristezza sapendo che sarà
altamente improbabile che riveda mai più la sua famiglia e il suo Paese".

La vicenda di Kambaksh aveva fatto scalpore. Il 24enne era stato condannato a morte con un processo-lampo per aver scaricato da un sito iraniano materiale informativo sui diritti delle donne e l'Islam. Una condanna che poi venne convertita in 20 anni di detenzione tra le
proteste degli islamici più intransigenti, fra cui anche alcuni politici vicini a Karzai, che ne chiedevano l'esecuzione immediata.
In tema di diritti umani, oggi Karzai ha firmato una legge per scoraggiare le violenze di ogni natura contro le donne afgane. Il testo, composto da quattro capitoli e 44 articoli, è una mossa in
controtendenza rispetto al passato. Nei mesi scorsi, infatti, aveva suscitato molte critiche nell'opinione pubblica internazionale un provvedimento, firmato dal presidente, che di fatto legalizzava lo stupro della moglie da parte del marito e proibiva alle donne sposate di uscire di casa senza il permesso del coniuge, anche per andare dal medico. Una legge che aveva provocato dure proteste internazionali e che alla fine era stata ritirata.
(7 settembre 2009)