- 20/02/09 di Giulietto Chiesa – da «La Stampa»
Il sospetto che la banda di spostati portata dagl’inquirenti davanti al tribunale di Mosca, fosse un coniglio malconcio venuto fuori troppo in fretta dal cappello a cilindro, c’era stato fin dall’inizio.
Parevano confezionati apposta per colmare in fretta la domanda di giustizia dell’opinione pubblica (più di quella esterna che di quella interna), e per chiudere, riducendo il danno d’immagine, l’assassinio di Anna Politkovskaja. La guerra di Cecenia, del resto, ha creato, in un decennio abbondante di massacri, una lunga scia di banditi, di killer professionali, di disadattati. Qualunque magistrato poco scrupoloso poteva pescare nel mucchio, sicuro di incappare in molti sospettabili a prima vista.
Sempre che fosse qualche “ceceno” l’esecutore materiale dell’assassinio. Sempre – ma come giurarci? - che fosse “ceceno” il suo mandante. Proprio a questo, infatti, quasi ovviamente, molti avevano pensato, fin dai primi istanti. Secondo la logica, troppo banale forse, che Anna Politkovskaja doveva essere stata uccisa per quello che aveva scritto e continuava a scrivere.
La banda, assai presto trovata, rispondeva perfettamente a questo criterio, se s’intendeva per “ceceno” non solo una persona di quella etnia, o nazione che dir si voglia, ma uno che era passato attraverso quel tritacarne, o che aveva nuotato in quel fiume, sporco di sangue, di dollari e rubli transitati ai piedi del Caucaso del Nord, giungendo fino a Groznij.
Ma che l’assassino e il mandante fossero “ceceni” non era scontato.
Il delitto si era rivelato subito troppo importante , troppo clamoroso, troppo internazionalmente significativo, per essere “soltanto” mosso dalla vendetta di un bandito, fosse pure un bandito diventato presidente di una repubblica della Federazione Russa. Avveniva proprio nel momento in cui , per esempio, Vladimir Putin stava facendo la grande virata strategica che, in pochi mesi, avrebbe fatto scorrere brividi di preoccupazione, e di irritazione, in molte capitali occidentali. Sicuramente a Washington. L’occasione della morte della Politkovskaja sarebbe stata sfruttata, infatti, con grande tempestività da tutto il mainstream mondiale, per additare Putin come il responsabile, più o meno diretto. E, del resto, poco dopo, a doppiare la dose, era giunto un altro assassinio molto sospetto, quello dell’ex colonnello del KGB, Litvinenko. Acqua passata, forse, anche se Putin continua sulla stessa strada di allora e il presidente della Russia ha ora un altro nome.
Ma il problema di allora, quale che fosse il suo ideatore, non è stato risolto.
Adesso un tribunale di Mosca dichiara assolti gli arrestati. “Non colpevoli”, cioè, dopo un processo celebrato da una corte militare, con qualche irregolarità procedurale.
E noi, che non conosciamo le motivazioni della sentenza, ci troviamo con un pugno di mosche in mano, come la famiglia della vittima, come i colleghi della Novaja Gazeta che hanno appena seppellito un’altra giovane giornalista, uccisa in pieno giorno in una via centrale di Mosca.Con un pugno di mosche in mano, come la democrazia russa che ancora geme sotto le macerie dell’Unione Sovietica.
E non sappiamo se siamo stati ingannati dal giudice inquirente, che ha sbagliato l’indagine, o l’ha accomodata; oppure dal giudicante che ha subito le pressioni dei militari e ha assolto gl’imputati commettendo a sua volta un delitto; oppure dalla ragion di stato, che riesce quasi sempre - non solo in Russia, come ben sappiamo – a proteggere e nascondere i misfatti dei potenti.
L’unica cosa che sappiamo – e che non fa onore ai dirigenti della Russia, che avevano promesso di mettere il paese “sotto la dittatura della legge” - è che assassini e mandanti di Anna Politkovskaja sono in libertà.
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