10 gennaio 2010

Uccisa a Ciudad Juárez Josefina Reyes militante per i diritti umani



Riceviamo da Marisela Ortiz

Protesta fuori della PGR per denunciare l'assassinio della compagna Josefina Reyes
7.1. 2010

Giovedì 7 gennaio si sono date appuntamento diverse organizzazioni e persone a titolo personale fuori della PGR, per protestare per l'assassinio della attivista Josefina Reyes, abitante del Valle de Juárez.
Josefina Reyes, una delle prime donne a denunciare gli abusi contro le donne e ad alzare la voce per denunciare la militarizzazione e la grande impunità che regna a Ciudad Juárez, è stata assassinata ll 3 gennaio, dopo aver ricevuto varie minacce di morte dall'esercito, per aver lottato nella difesa dei diritti umani.
E' per questo che attivisti/e del luogo si sono riuniti/e fuori della PGR, per ripudiare le politiche militariste del governo di Calderon, denunciando le responsabilità dello stato per la morte e la distruzione degli e delle abitanti di Juarez.
Con cartelli che dicevano: "Si dimettano Chavez e Calderón" , "dignità", "giustizia" "rispetto", volantinando e gridando "Juárez, Juárez non è una caserma" " Via l'esercito", le persone hanno manifestato la loro indignazione; certo non c'erano solo i/le manifestanti accorsi all'appuntamento, ma all'interno delle installazioni della PGR in modo minaccioso si trovavano poliziotti federali armati che vedevano la rabbia e l'impotenza di chi come noi giorno per giorno vive l'abuso dell'esercito e della polizia federale manovrata da un governo che si regge sull'odio, l'avidità e l'oblio del popolo.
In ricordo della compagna caduta, sabato 9 gennaio alle 8 am, si realizzerà una carovana di auto per il pantheon di Guadalupe, per lasciare dei fiori sulla sua tomba e tornare poi a Juárez terminando alla PGR di Ciudad Juárez.
Non dimentichiamo di manifestare contro lo stato d'assedio che si vive in questa città e che non termina con una sola manifestazione.
Non una, non uno di più!
Fuori i militari dalle strade!
Juarez, Juarez non è una caserma, via l'esercito!

Altre informazioni in www.griterio.org

15 dicembre 2009

Non dimentichiamo lo sgombero dei Rom di via Rubattino a Milano


I temi dei compagni di classe: “Dovrebbero aiutarli a restare”

di Zita Dazzi da www.repubblica.it

«Roberta abitava in una baracca in un campo insieme ad altri rom e alla sua famiglia. Era sempre presente in classe e io ero felicissima. Ma oggi non è venuta e io ho pensato: “Sarà malata?”». Finito il tema, le maestre dell´elementare di via Pini hanno spiegato alla bambina milanese che Roberta non andrà più a scuola.
«E se i rom fossero ricchi e il Comune una mattina si trovasse una ruspa che gli distrugge la sua casa? Sicuramente sarebbe deluso, ma poi il Comune che cosa ci guadagna? I rom passano da un campo all’altro e per la città sono nuovi problemi». Hanno fatto un tema, ieri mattina gli alunni delle scuole elementari di via Pini, di via Feltre e di via Cima. Un tema che in qualche caso ha preso la forma di lettera al sindaco Letizia Moratti, in qualche altro ha semplicemente raccontato lo sgombero del campo rom di via Rubattino. Pagine disperate e incredule dei compagni di classe dei piccoli rom che hanno terminato il loro anno scolastico. «In classe piangevano tutti, non solo i bimbi rom che hanno perso tutto e che da ora dormiranno in strada», diceva ieri, mentre le ruspe assaltavano le baracche dentro all’ex Enel, la maestra Barbara Bernini, responsabile del progetto stranieri nei tre plessi della primaria «Elsa Morante». C’era anche lei in via Rubattino, ieri, assieme alla dirigente Maria Cristina Rosi: «Tutto il nostro lavoro, tutta la fatica che abbiamo fatto per accoglierli, per metterli in grado di seguire le lezioni e di ottenere grandi risultati, tutto questo buttato via! È una vergogna, una cosa scandalosa». In classe intanto scrivevano: «Quello che è successo non mi piace per niente – si legge in un tema – . Le autorità dovrebbero mettersi nei panni della mia compagna Isabela, che a me all’inizio non sembrava proprio una rom. Mi sembrava africana. Aveva un grande senso dell’umorismo e era ottimista e positiva».

C’erano diversi genitori della scuola Elsa Morante, accanto agli insegnanti, davanti ai cancelli della fabbrica occupata dai rom. Ma c’erano soprattutto le maestre: Flaviana Robbiati, Silvana Salvi e Ornella Salina, che da mesi si occupano dei bambini iscritti a scuola, 36 quelli in età dell’obbligo, oltre a un altro centinaio più piccoli, in età da nido o da materna. «Nelle nostre scuole si stava costruendo concretamente quella integrazione di cui tanti parlano», racconta Veronica Vignati, una delle maestre che hanno dovuto consolare i bambini in classe, in via Pini, cercando di incanalare tutta la tristezza nel fiume di parole che ha riempito le pagine dei quaderni. «Secondo me dovrebbero aiutare questi rom a trovare un posto nuovo dove stare, invece di rendergli sempre più difficile la vita», conclude una bambina nel suo tema. «Per loro è incomprensibile, inimmaginabile che un loro compagno di scuola resti senza tetto – continua la maestra Veronica – anche se conoscevano la povertà di quelle persone. Sono disperati e noi non sappiamo come consolarli, con quali parole spiegare questo sgombero, che non ha avuto rispetto delle famiglie che volevano integrarsi». Anche l’onorevole pd Patrizia Toia si indigna: «Nel campo di via Rubattino si stava compiendo un autentico miracolo. Chiedo al sindaco Moratti, all’assessore Moioli in quale scuola andranno domani quei bambini. Chiedo se si rendono conto che hanno interrotto colpevolmente un cammino di integrazione scolastica, il primo passo di un percorso che può cambiare la vita di quei bambini».

Se la Palestina e' negata da un Muro. Storia di un esproprio.

Di LUISA MORGANTINI
gia' Vice Presidente del Parlamento Europeo

Lo scorso 9 novembre tutti abbiamo festeggiato i 20 anni della caduta del muro di Berlino. Commozione e indignazione per quel simbolo di violenza e separazione fatto di cemento su cui donne e uomini e artisti da tutto il mondo hanno impresso le loro immagini colorate di libertà, nessuno, o quasi, ha ricordato che un muro alto 9 metri divide la Palestina. Un muro dell’apartheid e della violazione del diritto internazionale che Israele malgrado appelli, risoluzioni di parlamenti e assemblee delle Nazioni Unite continua a perseguire.
E davvero quasi nessun media ha mostrato le immagini di giovani palestinesi, israeliani e internazionali che a rischio della loro vita, nello stesso giorno in cui si commemorava la caduta del muro di Berlino, hanno aperto un varco nel muro a Khalandia e a Ni’lin e si sono presi uno spazio di liberta’.

La costruzione di quella che i vari governi israeliani hanno defininito “ Barriera difensiva” ha una lunga storia collegabile alla forma unica del colonialismo israeliano: risolvere la questione della presenza dei “nativi” e quindi non quella di sfruttare le risorse locali (anche se questo e’ uno degli elementi dell’ occupazione militare e della costruzione delle colonie) ma di impedire che vi sia una maggioranza della popolazione “nativa” per non mettere in discussione l’ ebraicita’ dello Stato di Israele.
Nel 1948 questo e’ stato ottenuto con l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi divenuti profughi e con la successiva distruzione di piu di 400 villaggi palestinesi. Nel 1967, guerra preventiva e di conquista territoriale, la stessa operazione non e’ riuscita, vi sono stati nuovi profughi (trecentomila) e molti che si trovavano all’estero per ragioni di studio o di lavoro non hanno potuto rientrare, ma la popolazione non e’ fuggita e’ rimasta attaccata alla terra di origine.
E’ nel 1994 che Ytzahak Rabin da’ il via alla costruzione di un muro intorno alla striscia di Gaza, prima verso il confine con l’ Egitto e poi tutto intorno alla striscia. Contemporaneamente inizia il controllo sui movimenti della popolazione palestinesi dei territori, impedendo l’ingresso a Gerusalemme agli abitanti della Cisgiordania e Gaza, istituendo centinaia e centinaia di posti di blocco tra le aree A. B e C definite dagli accordi di Oslo e costruendo km.e km. di strade all’interno dei territori occupati, espropriando (ovviamente senza compenso) terre di prorieta’ di villaggi o di individui palestinesi per espandere e collegare le colonie israeliane che hanno continuato ad estendersi.
Sempre Rabin, nel 1995, affida al Ministro per la Pubblica sicurezza Moshe Shachal l’incarico per valutare la separazione di Israele dai territori palestinesi con una barriera simile a quella di Gaza. Il progetto rimane accantonato fino alla fine del 2000 quando il Ministro, Laburista, Ehud Barack, decide dopo la provocazione di Sharon sulla spianata della Moschea di Al Aqsa e lo scoppio della seconda Intifadah di costruire una barriera nell’area di Latroun per controllare il passaggio dei veicoli palestinesi. Con il governo Sharon a partire dal Giugno 2001 si passa ai piani concreti di costruzione della “Barriera difensiva”, in realta di un Muro di annessione territoriale di intere aree palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.
La giustificazione addotta nelle prime fasi di costruzione del muro e’ stata quella della sicurezza, una barriera di separazione sarebbe stata in grado di impedire gli attacchi suicidi di estremisti palestinesi contro la popolazione civile israeliana. Sacrosanto dovere di ogni paese, e per questa ragione il progetto ha avuto l’appoggio con una campagna mediatica internazionale dei tre maggiori scrittori israeliani noti come appartenenti al campo della pace: David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua oltre che di molti politici del campo “illuminato”, i quali aggiungevano alle ragioni della sicurezza il fatto che con la separazione sarebbe stato piu’ semplice arrivare ad uno Stato Palestinese perche’ il muro ne avrebbe definito i confini. Ed in effetti il percorso del muro in successive dichiarazioni di diversi ministri Israeliani ne puo’ definire i confini.
Il problema e’: quali confini?
Non certo quelli riconosciuti dalla legalita’ internazionale: i territori occupati nel 67 che comprendono Gerusalemme Est. Il tracciato del muro, invece, entra profondamente nel territorio palestinese annettendo terre coltivate, distruggendo migliaia e migliaia di alberi di olivo centenari, alberi da frutta. Solo il 20 per cento del muro si snoda lungo i confini del 67, il resto penetra anche fino a 28 kilometri nel territorio occupato inglobando ed annettendo ad Israele, oltre i terreni coltivati intere colonie di popolazione ebraica, sopratutto quelle costruite nelle vicinita’ dei confini con Israele e che dividono in tre tronconi e in tanti Bantustan i territori palestinesi, impedendone la continuita’ territoriale necessaria ad ogni stato per esistere.
Il Muro o Barriera prende forme diverse: muro di cemento grigio alto tra i 6 e i 9 metri intorno a villaggi e citta’ come Qalqilya o Betlemme, mentre nelle aree rurali, la struttura e’ una barriera larga ottanta metri composta da elementi in successioni, filo spinato, trincea profonda 2.5 metri, pista di pattugliamento in terra battuta, barriera metallica alta tre metri, striscia di sabbia fine per rilevamento delle impronte, strada di pattugliamento asfaltata, seconda striscia di sabbia fine, filo spinato sistema di video sorveglianza. Secondo le rilevazioni UN-OCHA, la barriera ha solo 78 cancelli che possono permettere ai contadini di entrare nei loro terreni, ma di questi solo 38 sono stati aperti qualche ora al giorno e solo per palestinesi muniti di permesso, che ovviamente non viene concesso a quei palestinesi che pur proprietari di terra sono considerati pericolosi per la sicurezza, e basta avere fatto qualche giorno di prigione o avere dei figli o fratelli in carcere per essere nella lista di quelli che non avranno mai permessi.
Nel villaggio di Abu Dis, o Al Rahm, verso Kalandia, il muro divide la strada principale e separa la popolazione palestinese. Da una parte, quella annessa ad Israele con carta d’identita’ israeliana, dall’altra palestinese. La famiglia Boullata, viene separata del muro, padre e madre vivono dall’altra parte della strada e i figli nella casa di fronte dall’altro lato, Anthony invece ha la casa da una parte e il negozio dall’altra, deve rinunciare o alla casa o al negozio, e cosi centinaia di famiglie, perche il muro separa palestinesi da palestinesi, e, come ad Anata taglia il villaggio in due. Sempre UN-OCHA ha osservato che oltre 128.000 palestinesi saranno circondati dal muro su tre lati e controllati sul quarto da infrastrutture militari israeliane, mentre 69 insediamenti con piu’di 180.000 coloni, il 76% della Cisgiordania, oltre a piu’ di duecentomila nell’area di Gerusalemme Est saranno annessi ad Israele, inoltre 60.500 palestinesi residenti in 42 villaggi rimarrano chiusi tra il muro e la linea di confine.
La Commissione Economica del Parlamento Israeliano ha stimato il costo totale dell’ opera in 3.5 miliardi di dollari, equivalenti a oltre 4 milioni di euro al km., ogni km. nell’area rurale – secondo il Ministero della difesa Israeliano richiede mediamente 45mila mc. di scavo, 5mila mq. di asfalto, mille travi di cemento, 300 pali, 2.500 mq. di rete metallica e 12 km di filo spinato.
Era il 9 luglio del 2004 quando la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja proclamava che “La costruzione del muro da parte di Israele… nel Territorio Occupato Palestinese, incluso quello dentro e attorno a Gerusalemme Est … è contrario al diritto internazionale. Per questo Israele è tenuta a smantellarne la struttura… e a provvedere al risarcimento di tutti i danni arrecati…”.
La sentenza dell’Aja faceva seguito a varie risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite sollecitate dai ricorsi di cittadini e associazioni per i diritti umani palestinesi, israeliane e internazionali, mai prese in considerazione dai differenti Governi Israeliani semplicemente perché ritenute non vincolanti e non rilevanti.
La stessa arbitrarietà e noncuranza degli obblighi internazionali nella indifferenza, a parte dichiarazioni di condanna, dell’intera comunita’ internazionale ha permesso ai governi israeliani a distanza di 5 anni dalla sentenza dell’Aja di far avanzare il muro per altri 200 km circa nella West Bank, arrivando ad un totale di 413 km – circa il 60% dei programmati 730 km.
Questa palese volontà da parte del governo israeliano di espandere il proprio territorio con la costruzione del muro, ai danni del futuro stato palestinese, e’ sostenuta da politiche di incentivi economici e sociali destinate alle famiglie che si trasferiscono nelle colonie illegali della Cisgiordania; al costo già elevato del muro, vanno aggiunte anche le agevolazioni su mutui, riduzioni delle tasse, facilitazione dei servizi sociali e il massiccio sistema di protezione militare in difesa della colonie, a |Hebron all’interno della citta’ dove si sono installati 400 coloni, si calcola che i soldati a loro difesa sono piu’ di 1.500.
A dispetto delle varie dichiarazioni, dalla conferenza di Annapolis a quelle più attuali, che vedono nel congelamento delle colonie una delle premesse ineludibili per ogni accordo di pace tra Israele e Palestina, le colonie continuano a crescere in Cisgiordania: per Peace Now sarebbero oltre cento le colonie illegali nella West Bank, circa 15.000 gli Israeliani che si sono trasferiti negli insediamenti della West Bank dall'inizio del 2008 per un totale di oltre 250.000 coloni che vivono oggi nei territori occupati ed altrettanti o di più, a Gerusalemme Est, che contro ogni legge internazionale, Israele considera parte della propria Capitale unica e indivisibile e dove sta accellerando una politica di pulizia etnica, espellendo dai quartieri palestinesi di Sheikh Jarrah, Silwan, Bustan famiglie palestinesi per far posto a fanatici coloni ebrei, e con la demolizione delle case palestinesi: dal 1967 ad oggi sono stati costruiti 17 insediamenti che occupano circa il 35% del territorio di Gerusalemme Est, nei quali vivono più 200,000 coloni (OCHA- Office for Coordination of Humanitarian Affairs – www.ochaopt. org/), e tra il 1967 e il 2006 sono state demolite più di 8500 case palestinesi. Nei soli primi 4 mesi del 2009, l’OCHA ha registrato la demolizione di 19 strutture a Gerusalemme Est, che comprendono 11 abitazioni civili.
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Ma ormai da qualche anno, si va sviluppado nei territori occupati palestinesi la consapevolezza e la pratica di azioni continue e non violente per opporsi alla costruzione del muro. A Bil'in ( www.bilin-village.org) dove il muro ha eroso circa il 60% delle terre coltivabili ai 1600 abitanti del villaggio, sin dal 2005 i residenti di Bil’in riuniti nel comitato popolare stanno manifestando ogni Venerdi’ insieme ad israeliani ed internazionali per impedire l’avanzata di una colonia e la possibilita’ di coltivare la loro terra.
Proprio grazie a petizioni e alla resistenza non violenta del villaggio, la stessa Alta Corte di Giustizia israeliana si è pronunciata contro il tragitto del muro a Bil’in, invitando il Governo Israeliano ad attuare una via alternativa, invito ovviamente caduto nel vuoto, mentre colonie quali Mod’in iIlit e Mattityahu continuano a crescere.
La resistenza di Bil'in e’ diventata esempio per molti altri villaggi come Ni’lin, Massara, At Tuwani e altri nella Valle del Giordano, e continua a crescere, con l’appoggio esplicito del governo palestinese di Salam Fayyad, che oltre a recarsi nei villaggi, ha messo a disposizione dei Comitati Popolari per le loro spese legali una cifra mensile all’interno del bilancio governativo. Anche a livello internazionale si e’ costituita una rete di sostegno alla resistenza non violenta palestinese.
Il governo israeliano, come ha sempre tentato di fare con movimenti di resistenza non violenta, e’ deciso a distruggere I Comitati Popolari e la loro unione con israeliani e internazionali, per questo continua le incursioni notturne nei villaggi, arrestando giovani e adulti ed ogni Venerdi I manifestanti vengono aggrediti con gas e anche pallottole.
Ma la resistenza popolare non violenta continua con sempre maggiore creativita’ come quella del 9 Novembre quando pezzi di muro anche se per poco tempo stati scalzati.

A cinque anni dalla sentenza dell’Aja, e a venti anni dalla caduta del muro di Berlino e’ davvero tempo che la Comunità Internazionale prenda misure concrete, iniziando dall’embargo delle armi al disinvestimento di ogni azienda che collabori con l’occupazione militare israeliana nelle colonie, che l’ Unione Europea sospenda l’ accordo di associazione e non pratichi nessun potenziamento, come invece prevedenono gli accordi di vicinato dell’Unione Europea, con il governo israeliano. Le Autorità Israeliane non devono essere sempre considerate al di sopra della legalita’ internazionale, in nome della sicurezza.
Il rispetto del diritto internazionale, la fine dell’occupazione militare dei territori palestinesi, la fine dell’assedio imposto a Gaza che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili, lo smantellamento del muro,Il blocco totale della costruzione delle colonie e la liberazione dei prigionieri politici sono l’unica strada per la sicurezza dello Stato di Israele e per la liberta’, la giustizia e l’indipendenza del popolo palestinese.


www.luisamorgantini.net
tel. 0039 348 3921465
luisamorgantini@gmail.com

7 novembre 2009

7 Novembre : Donne in Nero a Vicenza


Donne in Nero

con le Donne di Vicenza

per la smilitarizzazione del nostro ambiente e delle nostre vite

“L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

(articolo 11 della Costituzione)

Ripudiare la guerra significa non solo non fare guerre, ma anche non costruire, vendere e acquistare strumenti di guerra: né basi né armi.

La produzione e il commercio di armi, la costruzione e il mantenimento di basi militari, tutto questo ci riguarda come cittadine che non si rassegnano alle scelte di guerra, ma si impegnano per contribuire alla costruzione di una società giusta, solidale e di pace prefigurata dalla Costituzione.

Noi pensiamo che l’uso della violenza e la cultura delle armi siano le più assurde, le più stupide, le più crudeli attività che l’uomo abbia messo in campo nel corso della storia.

Per affrontare i problemi sempre più gravi del nostro tempo non servono altre basi, altri soldati, altre armi, occorre la co-responsabilità e la collaborazione internazionale, la solidarietà civile, fuori da ogni logica militare e di potere.

Non vogliamo essere complici del militarismo, ovunque si manifesti e in particolare nel nostro paese, con la concessione dell'aeroporto Dal Molin per una nuova base militare statunitense, la crescente militarizzazione della Campania (dal porto di Napoli alle basi militari, dalle fabbriche di armi alle discariche…), il magazzino di armi nucleari ad Aviano, il continuo aumento delle spese militari, la costruzione dei cacciabombardieri F35, la partecipazione a spedizioni militari camuffate da missioni di pace…

La militarizzazione del territorio non solo non ci dà, ma ci toglie sicurezza e libertà.

Per sentirci più sicure abbiamo bisogno in primo luogo di rispetto e di riconoscimento della nostra libertà, dignità e autodeterminazione. In secondo luogo è necessario costruire sul territorio dei rapporti che siano orientati alla reciproca conoscenza, alla convivenza e alla solidarietà, e riconoscere alle cittadine e ai cittadini il diritto a partecipare alle scelte che riguardano il proprio territorio.

Per questo scendiamo in piazza con le donne di Vicenza

e insieme con loro dichiariamo la nostra opposizione

alla costruzione della nuova base Dal Molin

Donne in Nero

di: Alba, Bologna, Padova, Milano, Napoli, Novara, Ravenna, Schio, Torino, Udine, Verona

7 novembre 2009

6 novembre 2009

Ciao Alda , grande donna, grande poeta


LA PACE

La pace che sgorga dal cuore
e a volte diventa sangue,
il tuo amore
che a volte mi tocca
e poi diventa tragedia
la morte qui sulle mie spalle,
come un bambino pieno di fame
che chiede luce e cammina.
Far camminare un bimbo è cosa semplice,
tremendo è portare gli uomini
verso la pace,
essi accontentano la morte
per ogni dove,
come fosse una bocca da sfamare.